La zona rossa racconta la vita dopo il sisma
Una sera tranquilla come tante altre, a casa, chi a studiare, chi a giocare, chi a rilassarsi. All’improvviso un boato, come un’esplosione, poi gli scricchiolii. La terra comincia a tremare. Oscillazioni, sussulti. Suppellettili che cadono, pareti, solai e pavimenti che si squarciano. La zona rossa (Editrice Il Castoro, 2018) della coppia in arte e nella vita Silvia Vecchini e Antonio Vincenti, meglio noto come Sualzo, è un fumetto sul terremoto. Nella fattispecie si concentra sulla sequenza sismica dell’Italia centrale del 2016-2017.

Commissionato dalla casa editrice ai due autori dopo la scossa del 24 agosto 2016, è stato realizzato solo più avanti, successivamente alla distruzione di Norcia del 30 ottobre. Quando gli sfollati di quella zona hanno raggiunto San Feliciano, frazione del comune di Magione in provincia di Perugia dove abitano i due fumettisti, la storia è diventata così reale e urgente per loro da doverla mettere necessariamente su carta.
Lo fanno con grande maestria e sensibilità, senza indugiare morbosamente nella catastrofe e nella devastazione, senza calcare la mano sulle morti, senza spettacolarizzare il dramma. La loro narrazione tuttavia non è affatto consolatoria. Descrive la realtà di tutti coloro che per un evento naturale hanno perso tutto: la propria casa, le cose care, la sicurezza, il quotidiano, i ricordi di una vita. In otto brevi capitoli La zona rossa testimonia il post sisma. Documenta i danni alle cose nonché il duro impatto emotivo e psicologico sulla gente: ciò che accade quando nonostante tutto bisogna rimettersi in piedi, andare avanti, anche senza forze, senza mezzi.

La paura, la disperazione, la rabbia, prevalgono e il processo per tornare a vivere si prospetta lungo, faticoso. Scoraggiante ma necessario. Ci si trova a scavare a mani nude fra le macerie del proprio cuore spezzato dal trauma, oltre che fra quelle di palazzi e chiese crollate, per tentare respiro dopo respiro di ricominciare a dare senso alla vita e un minimo di spazio a sogni e speranze.
Il punto di vista offerto al lettore ne La zona rossa è quello di tre giovani, Matteo, Giulia e Federico. Sono tre ragazzi come tanti, in età scolare, con gli hobby del calcio, dei fumetti, cresciuti in famiglie più o meno felici. Fra le tende e nel tempo cristallizzato post terremoto, impareranno giorno dopo giorno che ci sono cose importanti che permangono ben salde, anche quando tutto cambia drasticamente e repentinamente. L’amicizia, i sodalizi vecchi e nuovi e i legami familiari sono sicuramente semi fertili e tenaci da cui ripartire, da mettere a dimora e di cui prendersi cura. Sono sostegni per tentare di ricostruirsi, per non arrendersi nei tanti momenti in cui si sente di cedere, di non farcela.

Lo sanno bene le comunità dei terremotati, di cui i tre protagonisti del fumetto sono simbolo. Una ricca rete sociale è fondamentale anche per gestire gli effetti della mancata ricostruzione materiale, a distanza di anni dall’evento sismico. Burocrazia, norme malfatte e cattiva politica sono causa di un totale immobilismo. Gli sporadici interventi eseguiti, non coordinati e tantomeno programmati, sono realizzati senza un obiettivo. Non guardando alle necessità dei cittadini e alle peculiarità dei singoli territori, sono legati quasi unicamente a promesse elettorali e a campagne di finanziamento irrisorie.
Se il fumetto è diretto principalmente ai bambini della scuola primaria e agli young adults, in linea con la visione dell’editore, gli autori lo hanno dedicato ad un pubblico molto più ampio: «A chi ha perso qualcuno, a chi ha perso la propria casa, a chi ha sentito muoversi la grande tartaruga, a chi ha conosciuto la paura, a chi per mille ragioni è ancora ferito, a chi nonostante tutto guarda un papavero come qualcosa che dura, a chi ogni giorno fa combaciare i propri frammenti senza dimenticarsi dell’oro».
È palese l’invito ad un livello di lettura più profondo, quello per cui il terremoto non è solo la scossa tellurica, ma più in generale e per metafora, una di quelle difficili prove che la vita ci impone, nostro malgrado. Una di quelle situazioni da cui si esce sentendosi sopravvissuti, con l’animo profondamente ferito. «Ognuno di noi ha le sue cicatrici. Alcune sulla pelle, altre un po’ più nascoste. Dentro». Un’intima e privata zona rossa, in cui si ha difficoltà a scrutare, e nella quale nessuno per rispetto deve pretendere di entrare.

Per accedervi è necessario avere il permesso ed essere dotati del più assoluto tatto. Un garbo che è pregio di pochi, di certo dei professionisti: di psicologi e psicoterapeuti capaci di agevolare un recupero interiore anche a partire dalla polvere. Alcuni dolori rimangono, non passano mai, lasciano fratture e segni indelebili, ma si può tentare di rimediarvi come fanno i giapponesi con i vasi di ceramica rotti. Grazie all’antica arte del kintsugi, li riparano. Saldano i diversi pezzi con l’oro. Così le imperfezioni, le crepe di ogni oggetto da difetto divengono bellezza, particolarità, valore.
È in maniera analoga che l’individuo affronta ed elabora la propria sofferenza in un percorso psicoterapico, un impegnativo lavoro su sé stesso. La fa faticosamente emergere valorizzandola e dando nel contempo luce alle proprie risorse più intime. Così facendo prima o poi potrà mostrarsi rinato, cresciuto, evoluto, persino migliorato. Dai frantumi nuovi punti di forza. Da una fine un inizio.
La palese scelta di Silvia Vecchini e Sualzo ne La zona rossa è quella di lasciare recitare i personaggi, senza interferire. A livello grafico questa decisione si traduce in figure che parlano essenzialmente attraverso le espressioni dei volti, ottenute con pochi segni. Le emozioni dei protagonisti, così come l’atmosfera dell’ambientazione, sono rese inoltre grazie ad un’attenta scelta della gamma di colori.
A dominare è una sostanziale penombra, una luce sui toni del beige, come un sole che c’è, che illumina ma non scalda. Dà l’idea del surreale senso di sospensione del tempo, del silenzio e della dolorosa e operosa attesa cui sono costretti i tre personaggi chiave. Le tante scene notturne sono caratterizzate ovviamente da tinte scure, bluastre. Sono utilizzate per dare voce ai timori, all’angoscia e per permettere al lettore di immedesimarsi in chi è totalmente immerso in strazianti scenari di distruzione. Da brividi. Solo nelle ultime quattro tavole prevalgono i toni del giallo oro (come quello del kintsugi). Evidenziano un passaggio dalla stagione invernale a quella primaverile con il suo portato di rinascita, spiraglio di speranza per il futuro.

Nel bel mezzo del fumetto, invece, c’è una vera e propria zona rossa, come quella del centro storico del paese dove abitano Matteo, Giulia e Federico. Matteo vi entra in sogno per cercare il cane Artù (rosso anch’esso sin dalla copertina). Ma la zona rossa è anche per lui la sede dei ricordi e dei desideri più profondi. Qui ritrova suo papà e ritorna piccino. Allora i genitori non si erano ancora separati e tutto nei rapporti era molto più semplice.
Emblematica anche la decisione di non legare il fumetto ad un singolo paese colpito dallo sciame sismico. Il borgo de La zona rossa non ha nome e le istantanee che Sualzo realizza delle macerie provengono da tutte le zone del del centro Italia. È un modo generoso per fare sì che chiunque sia stato vittima del terremoto del 2016 possa sentirsi rappresentato leggendo. Un espediente efficace per affermare che dinnanzi a fatti di tale portata si è tutti uguali e tutti uniti. Diverse piccole realtà territoriali divengono idealmente un unico luogo, un unico corpo.


















Cercando online foto di reference ho riconosciuto la vecchia sede del Caffè Sibilla a Visso, in piazza dei Martiri Vissani; via Mazzini a Norcia con le rovine del lato destro della Basilica di San Benedetto; l’ex Ufficio Postale di Arquata del Tronto; piazzale della Vittoria a Camerino. In più di un disegno di Sualzo è raffigurato un palazzo di Amatrice che oggi non esiste più, perché è stato abbattuto. Uno si trovava nel centro storico, nelle immediate vicinanze di corso Umberto I. L’ho ritrovato nello sfondo della foto nota come Pietà di Amatrice scattata da Emiliano Grillotti.
La Madonnina della vignetta a pagina 126 emergeva dalle macerie di Pescara del Tronto. Anche il letto, la sveglia e l’orsacchiotto che compaiono fra le rovine in altre vignette hanno un angosciante corrispettivo reale. L’ultimo dei tre in verità era un pupazzetto di Topolino che, si sa, non può essere disegnato per motivi di copyright. Si potrebbe continuare con un lungo elenco. Non manca infine la firma di Sualzo, che in ogni suo fumetto inserisce uno scorcio del suo amato Lago Trasimeno.



