Fidati di me: l’uomo forte davanti al suo inconscio
In questi ultimi giorni ho avuto modo di leggere Fidati di me di Lou Lubie (ComicOut, 2020), un fumetto con il quale l’artista torna in veste di autrice unica. Conosciuta e molto apprezzata dal pubblico per il fortunatissimo La mia ciclotimia ha la coda rossa, sul proprio disturbo dell’umore, ha infatti successivamente lavorato in coppia con Manon Desveaux in La ragazza nello schermo (ComicOut, 2019).
Fidati di me è un thriller psicologico sulla mascolinità. È finalizzato a demolire lo stereotipo dell’uomo protettivo, sempre forte e stabile, tutto d’un pezzo, sul quale si può contare in qualsiasi momento. L’homme de la situation, come suona il titolo dell’edizione francese (Dupuis, 2021). Scardina lo storico modello culturale patriarcale dell’uomo bianco etero perfettamente efficiente, sempre sicuro di sé. Il paradigma dell’eroe.
Manu, il trentaseienne protagonista, incarna esattamente questo genere di uomo. Per osservare la propria esistenza e il rapporto con gli altri da una nuova prospettiva affronta una dolorosa indagine interiore. Deve farlo in uno sfortunato periodo della vita quando una serie di spiacevoli e inaspettate situazioni, di traumi, sconvolgono completamente il suo mondo.
La compagna lo ha lasciato e, serenamente emancipata, non accetta le sue continue offerte d’aiuto. Al lavoro si vede rifiutata una promozione a coordinatore scolastico cui tanto teneva. La sua candidatura non viene tenuta in considerazione e l’incarico è affidato ad una collega, per giunta meno qualificata di lui, solo in quanto donna, in nome di una demagogica parità di genere.
Il suo castello di carte crolla. L’immagine narcisistica che ha di sé e che pensa di restituire al prossimo viene distrutta. La sua solo apparente sicurezza granitica vacilla definitivamente, facendo trasparire dipendenza affettiva e mania del controllo. Si ritrova di colpo senza ripari, frustrato e disperato. È in questo momento che conosce fortuitamente l’adolescente Rusine e i suoi sei fratelli minori, alcuni dei quali con handicap fisici e mentali.
Sono problematici, analfabeti e non scolarizzati, immersi in un milieu di miseria sociale. Abitano in un vecchio e strano hotel gestito a tempo pieno dalla madre che, per il troppo lavoro, non riesce a badare ad altro. È Rusine a prendersi carico di tutti. Addossando sulle proprie spalle tutto il peso, si trascura.
Nelle condizioni personali in cui versa, Manu commette l’errore più scontato. Fa quello che gli è più istintivo e connaturato. Invece di fermarsi, guardarsi dentro e curarsi di sé, si lancia senza protezioni verso gli altri. Non può esimersi dal sentirsi ancora capace e utile. Così si propone come istitutore privato impegnandosi ad aiutare i sette fratelli in qualsiasi modo.
È ben deciso a salvarli tutti, offrendo loro la stabilità di cui necessitano e l’opportunità e la gioia di apprendere. Diviene una sorta di padre putativo per i più piccoli, un confidente per la madre e lega sempre più con Rusine.
Se da principio la nuova occupazione di Manu sembra offrire i vantaggi di un mutuo soccorso, presto si capisce che la realtà è ben diversa. Di certo non è la soluzione ai suoi problemi depressivi, o forse sì, ma solo alla fine di una progressiva discesa agli inferi, lungo una vorticosa spirale di turbamenti e angosce.
Il giovane maestro infatti viene letteralmente risucchiato da questa strana, ambigua, inquietante e disfunzionale famiglia. Ne diviene totalmente succube. Senso di colpa, vergogna, fallimento, frustrazione, rimpianto, rimorso e rifiuto lo tengono dolorosamente avvinto nelle maglie di un ingranaggio. Si insinuano nelle sue più intime crepe, paralizzandolo e divorandolo.
Mentre ciò avviene, anche il lettore perde completamente l’orientamento. È portato a porsi mille domande e a dubitare del protagonista. Manu è davvero l’uomo tutto di un pezzo, altruista, che vuole salvare il prossimo perché solo così si sente realizzato? O forse sfrutta la sua posizione per secondi fini? E se invece fosse rimasto invischiato in qualcosa di più grande di lui proprio perché candido, semplice d’animo e in totale buonafede? Riuscirà a liberarsi da tutte le emozioni potenti e negative che lo attanagliano?
In questo turbinio di pensieri e interrogativi Fidati di me coinvolge in una lettura che si fa via via più ansiogena e opprimente, fantastica e metaforica. Indizio dopo indizio, in un climax di colpi di scena tipico di ogni poliziesco che si rispetti, giungono le risposte ai dilemmi. I tasselli e le informazioni pian piano vanno al giusto posto. Si ricompongono e acquisiscono significato solo nelle frettolose e incalzanti fasi finali.
Un ritmo narrativo certamente studiato. La prima parte del fumetto si dipana in uno spazio adeguato, appagante. La seconda, di rottura, è estremamente veloce, e finalizzata a creare tensione. Alcuni degli ami gettati nella fase risolutiva forse vengono recuperati davvero troppo in fretta, lasciando insoddisfatta la curiosità di saperne di più.
Non voglio svelare molto altro sul contenuto di Fidati di me perché è un fumetto immersivo e sorprendente che va a parare esattamente dove non ci si aspetterebbe. Merita di essere gustato il più possibile a scatola chiusa.
Il grafismo di Lou Lubie per Fidati di me si distingue da quello dei suoi lavori precedenti. I disegni, frutto del suo consueto lavoro in digitale su Photoshop, sono sempre netti, precisi, rifiniti ed espressivi, ma più realistici. Decisamente potente il simbolismo. Estremamente vari e dinamici i frame delle vignette. Non ci sono due tavole con la medesima composizione.
L’uso del colore in funzione emozionale è dovuto all’illustratrice @mauditbutin, al primo incarico come colorista, anche se non citata nella risguardia. A tavole caratterizzate da colori chiari, se pur velati, se ne alternano altre dominate pressoché esclusivamente da tinte fosche. Toni cupi, plumbei e minacciosi, perfettamente armonici con l’atmosfera tormentata della storia.
Mi preme qualche osservazione generale. C’è un episodio nella storia di Fidati di me che mi ha procurato un’istintiva reazione di fastidio. È quello che permette all’autrice di autocitarsi. Il sospetto che Manu nutre sulla bipolarità della compagna Noemi, tirato in ballo dal nulla, l’ho avvertito come una forzatura. In effetti non è strettamente funzionale alla narrazione e il presunto disturbo non aggiunge e non toglie nulla alla caratterizzazione del personaggio, per altro secondario.
Ascoltando un’intervista a Lou Lubie, è con sorpresa che ho scoperto che la scena trae origine da un’esperienza personale. L’autrice racconta che dopo aver scritto La mia ciclotimia ha la coda rossa in moltissimi l’hanno contattata per chiederle sostegno, informazioni e consigli. Fra questi più uomini, innamorati, lasciati dalle loro fidanzate e sofferenti. Nell’esprimere il dubbio che le loro ex compagne fossero ciclotimiche, volevano sapere da lei come poterle aiutare. Tutti questi uomini, senza minimamente cercare il problema in sé per la loro separazione, si sentivano autorizzati ad imporre alle donne un aiuto non richiesto. Lou Lubie è rimasta profondamente colpita da questo genere di dinamica.
Considerato ciò, il disagio che ho percepito durante la lettura non è altro se non un successo dell’autrice. Vuol dire che è riuscita a descrivere e comunicare nel migliore dei modi il proprio di fronte ad atteggiamenti maschili davvero difficili da digerire.
Ho trovato strano anche l’accento sulla ragione per cui Manu non ottiene la promozione e cade nella sconforto. La scelta fatta unicamente per aumentare il personale femminile spiega la sua totale impotenza di fronte alla decisione presa dalla dirigenza scolastica. È vero, non ci si può ribellare contro qualcosa che è voluto per legge se non passando dalla parte del torto.
Eppure come donna ho pensato che qualsiasi altra motivazione dura da sopportare avrebbe potuto giustificare lo stesso tipo di sentire nel protagonista. Invece anche questo aspetto prende spunto e ispirazione da una conversazione che ha segnato Lou Lubie: un dialogo intercorso con un conoscente. Un professore universitario ultracinquantenne, le ha infatti chiarito quanto sia frequente che nell’ambito della ricerca il dossier di un uomo di quell’età sia posposto a quelli dei più giovani e delle donne. Una riflessione che ha concorso anch’essa all’ideazione del soggetto di Fidati di me.
Ma bastano le cosiddette quote rosa ad esaurire la tematica dell’uguaglianza di genere e dei contraccolpi sulla psiche degli uomini? Impossibile non riflettere sulla diffusa incapacità di un certo maschile di confrontarsi con donne sempre più autonome, realizzate, consce dei loro bisogni e non più disposte a farsi da parte.
È evidente che non riesca ad adattarsi ai mutamenti della società in questa direzione, seppure con innumerevoli falle. Tanti non essendo in grado di ritagliarsi un nuovo ruolo, si sentono spodestati, sminuiti, privati di autorità e di forza. Un fenomeno che, portato alle estreme nefande conseguenze, riempie le pagine di cronaca nera. Un argomento complesso e fortemente attuale.
Fidati di me permette di ragionare su tutto questo e, al di là delle distinzioni di sesso, sul valore e il rilievo dell’introspezione. Bisogna dare voce e ascolto a tutte le emozioni perché, coinvolgendo mente e corpo, servono a indicarci la via e a metterci in guardia dai pericoli. Influenzate dal nostro vissuto più antico, quando sono troppo intense possono rivoltarcisi contro. In questo caso l’unico modo per non esserne sopraffatti e non perdersi è riconoscerle e accettarle, meglio se con la collaborazione di un professionista. Segno di debolezza? Affatto. Un percorso ricco e proficuo che per esperienza mi sento vivamente di consigliare.