Giù le zampe denuncia la pedofilia intrafamiliare
Con un groppo in gola, le spalle contratte, le lacrime agli occhi e lo stomaco sottosopra. Ho finito con queste sensazioni fisiche la lettura di Giù le zampe di Cecilia “Gato” Fernández, artista argentina classe 1987, edito da ComicOut ad aprile 2021.
È un fumetto toccante, doloroso, a tratti insopportabile, un pugno in pieno ventre. Lo è perché, come anticipa il sottotitolo, si tratta di una storia vera, di un racconto intimo e autobiografico. L’autrice mette a nudo se stessa, rendendo pubblici gli abusi subiti dal padre quando era molto piccola, dai 3 ai 7 anni.
Il titolo originale El golpe de la cucaracha, “Il colpo dello scarafaggio”, traduzione letterale del detto francese Le coup de cafard, che significa “soffrire di una profonda depressione”, spiega bene due aspetti del medesimo fumetto. In primis sottolinea quanto per l’autrice realizzare Giù le zampe, e dunque rivivere i propri traumi, sia stato devastante, ma nel contempo terapeutico.
«Se tutti i miei psicanalisti hanno avuto qualcosa in comune, è che concordavano sul fatto che essere in grado di disegnare e scrivere è ciò che mi ha salvato da follia e/o suicidio. Faccio quello che faccio per necessità».
Non basta. Lo scarafaggio del titolo originale introduce alle altre peculiarità di Giù le zampe, che lo rendono immersivo e magnificamente efficace. La narrazione, pur riguardando fatti del passato, è al tempo presente e in prima persona. Il punto di vista è quello infantile di Lucía, proiezione dell’autrice, riportata nel quotidiano di allora con tutto il suo carico emotivo.
Vive a Buenos Aires a casa di Chana, la nonna paterna, insieme a mamma Edith, papà Alberto e Fede, il fratello di quattro anni maggiore. Va all’asilo, ha qualche amica, ma il suo mondo è racchiuso fra le mura domestiche. Passa il tempo con la nonna bacchettona e moralista che non le risparmia critiche nei confronti della madre. Il padre è violento verbalmente e psicologicamente nei confronti della mamma, una donna di certo affettuosa, ma spesso assente per lavoro e a tratti ambivalente nel modo di educare.
Litigi con urla e parole pesanti rovinano le serate, angosciano e spaventano lei e il fratello. Si aggiunge il terrore che Lucía prova a causa delle attenzioni morbose e malate del genitore. La aiutano i giochi fraterni e in solitaria, disegnare, ascoltare musica e guardare film.
La fantasia e l’immaginazione, invece, così come il suo universo onirico, la salvano. Sono una forma di difesa, un incoraggiamento a lottare e a resistere. Ed ecco battaglie epiche, mostri da annientare, peluches parlanti, topi antropomorfi, bidet divinità, diavoletti, saloon-bordello, fantasmi che solo lei può vedere e scarafaggi, appunto.
«Sono gli insetti più schifosi del mondo. Girano per le fogne e nei posti più sporchi del pianeta, e portano ogni tipo di malattie! E sai la cosa peggiore qual è? Sono dappertutto! Anche se non li vedi, ci sono… Sempre! Se cadesse una bomba atomica gli scarafaggi sarebbero gli unici a sopravvivere… Sono praticamente invincibili».
Se per Gato Fernández sono una vera e propria fobia, dietro alla quale si cela sempre la carenza della funzione paterna, Lucía nel fumetto vede suo padre proprio come un enorme scarafaggio. Lo si scopre sin dalla copertina del fumetto. Ma anche all’interno, quando lui la tocca, tante orribili blatte camminano sul suo corpo, vivo ricordo di un’orrenda allucinazione tattile.
E gli insetti, come le ombre e i fantasmi degli abusi, non muoiono mai perché marchiano corpo e anima. La fusione di tono realistico e di immaginario, di fiabesco, di racconto popolare, di mitico ed epico e di onirico, inscrive Giù le zampe fra gli esempi di realismo magico latino americano.
Caratteristica in questo senso è la naturalezza con cui Lucía vive il rapporto con il fantastico, percepito e presentato come ordinaria normalità, e portato nel familiare, oltre che nella rilevanza della tematica sociale. Anche lo scopo è quello che generalmente si prefigge questo stile di narrazione: non di suscitare emozioni ma di esprimerle.
L’autrice non spiega lo straordinario ma lo usa e lo rende fenomeno comune e legittimo rispetto al mondo naturale tangibile. Il soprannaturale diviene così del tutto coerente e vero all’interno della storia e della sua testimonianza.
Di fronte a questa, il lettore si trova nella “scomoda” posizione di spettatore impotente dei fatti, così come inerme è la protagonista. Nessuno coglie, almeno all’interno del nucleo familiare, i tanti segnali che Lucía lancia. Tutti sbagliano.
Sua madre, per altro psicanalista, vittima anch’essa di violenze e maltrattamenti, non si rende minimamente conto della situazione. La nonna paterna nella migliore delle ipotesi non vede e non capisce. L’unico vero e costante alleato rimane il fratello, ma data la sua tenera età non ha le armi per intervenire e fare la differenza.
Anche quando la mamma di una compagna di scuola di Lucía ascolta una conversazione inequivocabile, facendo deflagrare la situazione, cambiano tutti gli equilibri familiari, ma non abbastanza per la bambina. Persino la psicoterapeuta che interviene non è in grado di prendere una posizione chiara a difesa.
Per tanti anni Gato Fernández ha pensato di tenersi dentro il suo dolore e di rimanere in silenzio, fino a quando, nel 2016, ha denunciato penalmente. La vicenda giudiziaria si è conclusa sul nascere. I periti hanno unanimamente riconosciuto l’abuso ma la madre e il fratello, assurdo a dirsi, hanno smentito e negato le sue accuse facendo archiviare il caso.
A ciò si sono aggiunte le conseguenze del principio secondo cui l’accusato è innocente “fino a prova contraria”. Un fondamento del diritto che nel suo caso ha significato, ad esempio, essere l’unica parte in causa sottoposta a perizie psicologiche e psichiatriche. A distanza di tanti anni dai fatti in questione, Gato Fernández in sostanza è stata lasciata sola ancora una volta.
Abbandonata dalla famiglia, che dovrebbe essere un’isola d’amore e di protezione, ma anche dalle istituzioni giudiziarie a causa di un sistema che, alle volte, parrebbe tutelare più i carnefici che non le vittime. Oggi i rapporti con madre e fratello sono tutti da ricostruire e suo padre biologico vive in strada.
Dunque, a tendere una mano in supporto verso Gato Fernández, appiglio e rete di salvataggio, sono state le tante associazioni femministe e transfemministe di cui fa parte. Tanti anni fa lo stesso compito lo aveva avuto il suo maestro e mentore Carlos Trillo, a cui Gato Fernández è estremamente legata nel ricordo.
Il lavoro di creazione di Giù le zampe ha avuto il suo ruolo. Dover portare a termine un progetto e avere un obiettivo l’ha aiutata anche solo a sentirsi realizzata e motivata ad andare avanti, a riprendere in mano la sua vita. È stata un’esperienza molto forte, una terapia dello shock. Scriverlo è stato veloce: una nottata intera, anche se poi sono serviti quattro mesi per sistemare la sceneggiatura.
La difficoltà maggiore è stato disegnarlo, le ci sono voluti tre anni. «un po’ trascinandomi», confessa l’autrice nella postfazione. Come si trascinano gli insetti, allo stadio larvale. Ma è umano e comprensibile quando immagine per immagine bisogna tornare alla fonte del proprio dolore. La parte più dura del tutto, la montagna da scalare, è stata mettersi alla scrivania, trovandosi poi ad affrontare attacchi di panico, ansia, depressione, e in un’occasione una lavanda gastrica.
Anche per questo lo stile grafico di Giù le zampe è infantile e delicato, per poter essere sopportabile rispetto alla storia che veicola, dal portato terribile e straziante. I disegni sono curativi e ottenuti come se matite e colori fossero spade per combattere contro i demoni. Non c’è attenzione per i particolari, per la prospettiva e i punti di fuga, ma si mira all’essenziale: l’espressività. Per documentarsi su luoghi e persone un unico album di foto di famiglia, quello che Gato Fernández ha portato con sé a vent’anni, scappando definitivamente dalla casa materna.
«Oggi non ho intenzione di dichiarare che tutti i miei mali siano spariti e di essere una persona che non soffre, ma posso assicurarvi che il bisogno di parlare ad alta voce è ancora più forte di tutti i mostri, quelli che mi alitano sempre sul collo».
E se un fumetto non è un balsamo capace di rimarginare ferite, Giù le zampe di certo le mette in mostra, divenendo così uno strumento di denuncia di ciò che la società non vuole vedere e sentire, e che spesso per questo motivo rimane segreto e nascosto. Dedicato «a coloro che stanno sopravvivendo a un abuso», vuole essere anche un sostegno per loro, per uscire dall’isolamento, avere la forza di denunciare e di liberarsi dallo stigma.
Giù le zampe è un libro di cui promuovere la lettura nelle scuole. Esprime l’indicibile magistralmente ed è pertanto il giusto spunto per approcciare il tema. Sensibilizzare sul dramma della pedofilia, tanto più su quella intrafamiliare, è oltremodo necessario. Non si tratta infatti di qualcosa di sporadico ma di un fenomeno comune, diffuso e costante ieri come oggi.
Informare è un urgente primo passo per prevenire e tutelare, così come è fondamentale creare sinergia e integrazione tra le diverse figure che a diverso titolo si occupano dei minori. Conoscere e riconoscere prontamente i segnali di disagio, i segni clinici di cambiamento comportamentale e le eventuali evidenze fisiche in un bambino molestato può costituire la salvezza. Più frequente è la violenza, più avviene in età precoce e tanto peggiori sono i danni.
Gato Fernández ha annunciato altri tre volumi che racconteranno gli anni successivi a quelli finora abbracciati in Giù le zampe. Non posso dunque che attendere con trepidazione il seguito della storia. Prevedo che avrà successo, come quello che sta scalando questa sua prima importante e meritoria impresa autobiografica. Un abbraccio e buona vita, Gato!