Munnu e il suo Kashmir di cervi, cani e umani
Malik Sajad è Munnu. Un ragazzo del Kashmir (add editore, 2020). Munnu è un vezzeggiativo. Vuol dire “il più piccolo”.
Così lo chiamano nella sua numerosa famiglia musulmana sunnita composta da mamma Haseena e papà Gulya, dai tre fratelli Bilal, Adil e Akhtar e dalla sorella Shahnaz. È il 1993, ha solo sette anni e vive a Batamaloo, nel distretto dello Srinagar in Kashmir, terra affascinante, contesa e rivendicata sia dall’India sia dal Pakistan.
La sua famiglia, nonno Abba e nonna Nanni, la routine casalinga, i dettagli e gli avvenimenti minuti sono gli aspetti positivi della sua quotidianità di bambino. Sono l’infanzia da ricordare, perché non vada perduta. Munnu è attratto dal lavoro di intagliatore di legname del papà, attraverso il quale scopre il suo talento per il disegno. Predilige lo zucchero, da cui è praticamente dipendente, e tutto ciò che è dolce: le caramelle toffee, l’uva passa, l’arancia candita. È indissolubilmente legato a Bilal, il fratello di nove anni più grande, per cui prova un amore incondizionato.
La vita e le speranze di Munnu avrebbero potuto essere come quelle di tanti altri bambini del mondo. Ma la realtà è ben altra. Intorno a lui e ai suoi affetti regnano incontrastati, onnipresenti e oppressivi la polizia indiana, l’esercito, il fanatismo religioso, la censura, la povertà e le repressioni.
Munnu, proprio lui, il più piccolo di casa, invece che respirare felicità e godersi la spensieratezza che si addirebbe alla sua età, è innaturalmente spettatore e vittima, insieme alla sua famiglia, delle violenze perpetrate nella sua terra.
Per quanto si alleni a disegnare le foglie di chinar e i Paisley il primo disegno che riesce a realizzare con soddisfazione, e che lo rende noto e apprezzato tra i compagni della scuola coranica, è quello di un AK-47. Non è un caso. In alternativa dai giornali avrebbe potuto riprodurre o ricalcare le foto dei corpi dei tanti conterranei straziati e uccisi.
A scuola si infatua di una ragazza e per questo motivo subisce punizioni corporali pubbliche. Non sarà l’unica volta. Non gli viene risparmiata neppure un’aggressione sessuale da parte di un ufficiale dell’esercito. La polizia indiana e i soldati spadroneggiano tra rastrellamenti e posti di blocco e si rendono di frequente responsabili del massacro di militanti e civili. Quando papà Gulya e Bilal escono per le parate di identificazione non si sa se torneranno a casa sani e salvi.
Munnu convive con la paura. È uno stato d’animo che non lo abbandona mai, nemmeno la notte quando si ripresenta sotto forma di incubi, urla e pianti. Dormire nel letto dei genitori o in quello dei fratelli lo tranquillizza, ma solo in parte.
Sajad cresce. Il 3 novembre 2001 a 13 anni viene pubblicata la sua prima vignetta per il Daily Alsafa, un quotidiano in urdu. Non ha conoscenze di politica. A gennaio del 2003 viene poi assunto come vignettista per il Greater Kashmir, il giornale inglese più importante del Kashmir. Tutta sua la colonna Inside Out. Nel tempo acquisisce consapevolezza della realtà in cui è immerso e si impegna in prima persona per poter cambiare le cose. Tenta di farlo con il suo lavoro che unisce arte e giornalismo, ma per la sua attività di denuncia e la sua notorietà viene preso di mira dall’esercito.
Tempo dopo, insieme alla primavera, arriva una boccata di aria nuova per Munnu. Riceve la telefonata di Paisley, un’artista americana di Brooklyn, in Kashmir per effettuare delle ricerche sull’arte tradizionale del luogo. Fanno conoscenza e con lei si aprono gli orizzonti del mondo. L’estero non è più solo l’India o il Pakistan. Fra i due nasce un’intesa speciale.
Un’occasione è il viaggio a Delhi, invitato dal Service Broadcasting Trust per una mostra all’Habitat Centre, uno dei centri culturali più attivo dell’India. Sette giorni e più in cui far conoscere lo Srinagar per mezzo della sua installazione artistica fatta di vignette, pagine di graphic novel, qualche fotografia, filo spinato fango e pietre sul pavimento. Ogni particolare per rendere realistica l’atmosfera di una zona di guerra. Ma anche quel viaggio si trasformerà in una guerra.
Nel 2010 la situazione peggiora in Kashmir. Coprifuoco, posti di blocco, manifestazioni e un’escalation di violenza e di morti. Per Munnu è l’anno della malattia della mamma e della conclusione della graphic novel che oggi porta il suo nome, semiautobiografica. Un progetto lungo e impegnativo.
Malik Sajad attraverso la sua storia e quella di tante persone comuni, desidera aprire una finestra sulle vicende passate e presenti del Kashmir, poco conosciute e scarsamente comprese. Un obiettivo ambizioso per una graphic novel, considerato che solo di recente si sta scrivendo la travagliata storia postcoloniale di quel territorio.
È significativo che il libro sia costruito intorno al capitolo Note a piè di pagina (pp. 201-216). Le tavole che illustrano sinteticamente la cronologia degli eventi salienti della storia kashmiri sono il fulcro di tutta l’opera. Non c’è che dire, Malik Sajad raggiunge pienamente lo scopo che si prefigge e riesce a far chiarezza senza per questo rinunciare a coinvolgere emotivamente il lettore.
E se nel suo racconto sono espressi tutti gli elementi universali della condizione umana (le emozioni, la fame, i desideri, la voglia di libertà, di pace e di realizzazione), è impossibile per l’autore dare voce a tutto un popolo o parlare a nome di tutti.
Ogni abitante del Kashmir incarna una prospettiva unica e singolare del medesimo conflitto e delle conseguenze che quest’ultimo ha causato. Ciascuno costituisce quindi una tessera insostituibile e irripetibile di un mosaico, una sfaccettatura che contribuisce alla conoscenza e alla comprensione del contesto dell’intera valle, incastonata com’è tra India, Pakistan e Cina. Quello di Munnu e di Malik Sajad, vuole essere e rimane dunque un personale punto di vista.
Una generalizzazione è lecita e a scanso di errori: in Kashmir sono a rischio sia le persone sia le bellezze naturali. Le catene montuose con i loro ghiacciai, per esempio, sono messe a repentaglio dall’urbanizzazione, la deforestazione, i mutamenti climatici e dalle distruzioni dell’esercito.
I fiumi e i laghi, tutta quell’acqua che è nell’etimologia del nome Kashmir (ka in sanscrito vuol dire acqua), sono minacciati dallo sfruttamento indiscriminato a vantaggio di chi si contende il territorio. Ogni specie vivente è in pericolo, compreso il cervo rosso Hangul, l’animale nazionale ormai in via di estinzione per la devastazione del suo habitat.
Questo assunto è alla base dei disegni in bianco e nero dell’intera graphic novel che, con uno stile che ricorda quello delle incisioni sul legno, delle pitture rupestri e delle miniature tipiche kashmiri, vedono i personaggi trasfigurati proprio in questi cervi. Visivamente sono tutti uguali, antropomorfi, stilizzati e bidimensionali.
Persino il protagonista e i coprotagonisti sono riconoscibili graficamente solo a volte, grazie a minimi particolari. Ciò che veramente contraddistingue l’uno dall’altro è la personalità: il lato caratteriale, emotivo, a volte anche le contraddizioni. La terza dimensione dei soggetti, la profondità, non è frutto del disegno ma viene da prorompenti e dirompenti descrizioni a tutto tondo. È così che i cervi tornano ad essere umanamente reali, mantenendo comunque ben salda la loro identità di Hangul in estinzione.
Malik Sajad non realizza disegni belli esteticamente perché non è bella la storia che veicolano.
Il paragone corre inevitabilmente a Maus di Art Spiegelman, che Malik Sajad pare abbia letto nel 2010, in cui gli ebrei disumanizzati dalla follia nazista sono raffigurati come topi. Ma in Maus i nazisti sono gatti, i polacchi maiali, i francesi rane, gli americani sono cani.
In Munnu invece i non kashmiri, unicamente loro, hanno fattezze e sembianze umane. E fra questi si annoverano ovviamente i “cacciatori” e i “bracconieri”, e cioè tutti i rappresentanti di quelle forze che governano sul Kashmir reprimendo e assassinando. A volte, è proprio vero, la bestialità del male risiede proprio nella natura umana.
Oltre ai cervi e agli umani nella graphic novel appaiono spesso i cani, i cani randagi. Su questo aspetto è molto interessante e ricco lo studio di Anit R. Baishya: Canine Representations in Malik Sajad’s Munnu.
In Kashmir di cani randagi ce ne sono moltissimi, come in altre zone dell’Asia, e sono reputati animali selvatici ma allo stesso tempo animali domestici e di quartiere. Gli abitanti del luogo reagiscono alla loro presenza diversamente a seconda che appartengano al contesto socioculturale e religioso induista o islamico.
Inoltre le forze armate indiane e pakistane si servono dei cani per sostenere il proprio presidio dei confini kashmiri. Munnu legge il racconto Il cane di Tithwal di Saadat Hasan Manto, autore pakistano in cui si narra proprio di un cane randagio che viene ucciso dai soldati indiani e pakistani perché né gli uni né gli altri potevano concordare sulla sua nazionalità: era un nemico per entrambi.
La polizia indiana recluta e addestra cani randagi per le proprie unità cinofile, perché possano lavorare nelle azioni di sicurezza.
«Cani indiani, tornate a casa!», «Cani indiani, andate via!» urlano in una tavola i detenuti della prigione.
Nel fumetto ai cani viene simbolicamente affidato più di un compito. In alcuni casi servono a creare il contrasto tra le loro condizioni di vita e quelle dei cervi umanoidi sottomessi, umiliati, e ridotti alle quattro zampe.
In altri momenti vengono utilizzati per far notare similitudini e differenze tra il comportamento umano e quello animale. Il fine però è quello di distinguere nettamente i due mondi, agendo all’interno della sfera della moralità. I cani dunque evidenziano ciò che in un certo contesto culturale non deve essere fatto e deve essere giudicato come negativo e disgustoso.
Infine altre volte la differenza la si guarda dal lato etico relazionale, per fare comprendere il disagio nel riconoscere la totale parentela fra due mondi assolutamente estranei.
Nel romanzo di formazione di Malik Sajad si ritrovano gli echi anche di Persepolis di Marjane Satrapi. Sia Sajad che Marjane sono bambini e poi da grandi diventano affermati vignettisti e autori di graphic novel. Mentre però in Munnu il lettore è testimone di questa parte della vita del protagonista/autore, in Persepolis non se ne parla. Rimane poi la differenza fra due terre, Iran e Kashmir, situazioni, vicende ed esperienze che non possono essere assimilate. Per Malik Sajad quella Kashmir è una realtà peculiare e come tale deve essere esposta.
Altre passioni e fonti di ispirazione di Malik Sajad compaiono qua e là nella graphic novel. Fra i libri c’è Il tamburo di latta di Günter Grass, Lo scherzo di Milan Kundera. Molta la filmografia: L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, Forrest Gump, Schindler’s List, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Sparare a vista di Jag Mundhra, Baraka di Ron Fricke, La Jetée di Chris Marker.
Di certo non avremmo Munnu. Un ragazzo del Kashmir se Malik Sajad non avesse scoperto le potenzialità del genere del romanzo grafico e del graphic journalism. Il battesimo con The fixer. A story from Sarajevo di Joe Sacco (Neven. Una storia da Sarajevo), poi ovviamente la lettura di Palestina. Per concludere il suo libro, 352 pagine suddivise in 19 capitoli, Malik Sajad impiega due anni, parte dei quali trascorsi all’estero. Nel 2015 l’edizione inglese curata da HarperCollins Publishers.
«C’era una volta un ragazzo cresciuto in guerra che pensava che la fine dei conflitti fosse a pochi mesi di distanza. […] C’era una volta Munnu, che amava disegnare… Munnu non aveva mai cercato significati nei suoi scarabocchi, ma quando crebbe e diventò Sajad li usò per criticare, esprimersi, esporre, cercare vendetta contro il tempo che passa senza mantenere le promesse».